Un gioco che si palesa ogni tanto in radio, sulle riviste, in televisione o sul web è quello di indovinare se una storia è vera o falsa. Qualcuno racconta una storia e qualcun altro prova a pronosticare la realtà della stessa. È meno facile di quanto sembri perché le storie che paiono vere sono false, e viceversa. È proprio questa caratteristica a legittimare il gioco. Il punto è raccontare qualcosa che sembri altro. Jimmy Fallon, conduttore televisivo e comico statunitense, ne propone una versione nel suo The Tonight Show.
Adesso pensiamo per un attimo al marketing. Alla comunicazione integrata delle aziende, dei brand. Che cosa fa il mondo neoliberale? A partire dai loghi, passando per il claim, per il font, per i colori e arrivando alla pubblicità in quanto tale: racconta una storia. Da qualche anno, del resto, si sente apertamente parlare di storytelling. Leggiamo che “la pubblicità crea delle storie intorno al brand” oppure che “una buona narrazione è la base per una pubblicità di successo”. I marchi si presentano sul mercato attraverso una narrazione e noi – consumatori – ci accostiamo quotidianamente a decine o centinaia di queste narrazioni. La narrazione è il punto di contatto tra noi e loro. La narrazione è la porzione di brand che viene data in consumazione gratuita al pubblico.
E che dire della politica. Un articolo di Fabrizio Luisi per la rivista Not conferma che “Leggere la politica solo come un insieme di «storie» create da a tavolino da esperti di comunicazione può sembrare un approccio cinico, ma il fatto è che si tratta solo di strumenti. Chi li sa usare, può vincere. Chi non li usa non entra neanche in partita. E no, gli spin doctor e lo storytelling politico non rappresentano una degenerazione della vita democratica, ma piuttosto la naturale articolazione del tipo di democrazia – quella rappresentativa ed elettiva – che ci siamo scelti”.
Che cosa significa? Significa che la politica, i partiti e i leader politici sono impegnati a loro volta a imbastire e distribuire una narrazione all’elettorato. Anche loro raccontano storie. Ma non quel genere di storie – non frottole, quello è un altro paio di maniche, comunque subalterno alle storie che raccontano – proprio narrazioni. I politici rappresentano un personaggio o un archetipo. E poi c’è la narrazione dello Stato. Le narrazioni della finanza. Le narrazioni dello sport. Le narrazioni delle religioni. Qualsiasi forma di potere sussume una narrazione. Ricardo Piglia l’aveva capito benissimo e lo ha spiegato benissimo.
L’etimologia del termine “persona” ci può aiutare a capire quale sia il nostro legame con le rappresentazioni di una storia. “Persona” era la maschera utilizzata nei teatri greci e romani e letteralmente significa “suonare attraverso”. La maschera che indossavano gli attori aveva un foro all’altezza della bocca per permettere alla voce di amplificarsi e raggiungere anche gli spettatori più lontani dal palco. Di qui, l’uso di chiamare persona tutti gli uomini, quali “attori nel mondo, destinatari del dovere fondamentale di recitare il ruolo loro attribuito da dio, dal destino, dalla società”. (oppure da un piano editoriale).
E dunque: sappiamo riconoscere una storia quando ci viene raccontata? È facile riconoscere una storia quando apriamo un libro oppure sediamo in un cinema perché siamo entrati con coscienza nella dimensione delle storie. Ma è più interessante individuare una storia senza previe avvertenze o annunciazioni. Un buona metrica è soppesare la sospensione dell’incredulità, ovvero la volontà del fruitore di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di una narrazione. È curioso come, a volte, si faccia fatica a sospendere l’incredulità mentre si beneficia di una storia al cinema o su un libro mentre viene mantenuta ai massimi livelli se a parlare è un brand oppure un politico.
Il punto è che siamo talmente dentro le storie (sono troppo vicine, non le vediamo) che per familiarizzare con esse occorre separarsene (e dunque riconoscerle) per tornarvici. Quando leggiamo un libro il dialogo non è soltanto, per il principio dell’atemporalità e della multispazialità dell’ultralettura, tra opere di fantasia, è tra tutte le storie che abbiamo assorbito e configurato come tali. È proprio in virtù di questo discorso che un libro ha il potere di cambiarci eticamente, socialmente o politicamente. Le storie che racconta Trump, le storie che ha raccontato Berlusconi, le storie che racconta Volkswagen oppure Nike, se ne abbiamo fruito, sono scalabili e subiscono la porosità di nuove storie, di nuovi precursori, di romanzi e di saggi, di racconti e di film, di canzoni e di poesie come delle ulteriori storie dei protagonisti di cui sopra, i loro aggiornamenti, le loro riscritture. E anche se leggiamo o ultreleggiamo solo quello che vogliamo leggere o ultraleggere, se dunque decidiamo di essere schermati da un pregiudizio, stiamo deliberatamente operando sulla qualità della nostra lettura e della nostra comprensione.
Possiamo forse dire che le narrazioni che non vogliono essere nient’altro che narrazioni e che come tali si presentano, se ultralette, sono i cani da guardia delle narrazioni che si presentano come altro e che vorrebbero sembrare altro.
Si capisce?
Del resto, Pierre Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne.
Ecco perché tornare alle storie è importante: ultraleggerle, scalarle, scomporle, muoversi dentro le storie, ci concede di conoscere un frattale della realtà. Sapersi orientare all’interno di una narrazione permette di applicare il movimento alle decine di narrazioni che arrivano dalla società e dalla politica, recuperare le coordinate e cifrare la trama.
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Sembra difficile ma basta seguire bene:
Il libro A è la copia del libro B.
Il libro B è un’enciclopedia del nostro mondo ed è, dunque, una versione semantica e descrittiva di una realtà sensibile. Una copia a sua volta. Un libro che ambisce a essere copia. Un libro il cui fine ultimo è essere copia.
Il libro A è una copia della copia. Un allontanamento di terzo livello, per così dire, dalla realtà empirica che intende descrivere.
Nel libro A, in una delle versioni del libro A, si insinua una finzione. La finzione, che in quanto tale non è vera e neppure falsa, menziona uno spazio, un luogo geografico che la matrice del mondo che il libro riproduce non registra. La copia della copia della copia contiene una mutazione e questa mutazione è la chiave di tutto.
Più tardi, un’enciclopedia di un mondo che non è il mondo del libro B, cataloga la finzione di cui sopra, la include e la ramifica infinitamente. Questa enciclopedia, come abbiamo detto una versione semantica e descrittiva di una realtà sensibile, realizza la finzione e la esaspera.
Infine, una forma fisica della finzione, un oggetto, compare concretamente nel mondo del libro B.
La finzione a partire da un’alterazione, da un’interpolazione, entra in relazione specifica con la realtà e si realizza.
Questa è la sinossi di una delle trame che sottendono un racconto di Borges che si intitola Tlön, Uqbar, Orbis Tertius.
Luca Traini è un ragazzo di Macerata che lo scorso 3 febbraio ha sparato su alcuni cittadini di colore prima di consegnarsi alle autorità facendo il saluto romano.
Il suo gesto è la reificazione di una narrazione che viene condotta da alcuni politici a partire da una alterazione consapevole della realtà. Quella sparatoria è, in altre parole, l’esito di una finzione entrata in relazione specifica con la realtà.
Pare che una parte politica stia prevalendo grazie alla propria capacità di raccontare storie (ed è curioso che in testa alla partita della narrazione ci siano, nel funesto linguaggio piccolo borghese, “i barbari”, “gli ignoranti”, “i rozzi”).
E l’altra parte, oltre a raccontare le proprie, di storie, che sono comunque indispensabili per esercitare il potere, dovrebbe cercare di agevolarne la decodificazione, l’accesso. Limitandosi (seppur generando nuove forme di narrazione) ma limitando contestualmente le narrazioni rasoterra che sembra non vengano individuate come tali. Finzioni (per definizione non vere né false) che gli attuali egemoni stanno introducendo e che alterano la realtà grazie anche alla sospensione di incredulità di cui gli stessi narratori beneficiano.
In altre parole: la fruizione del discorso politico (e non solo) avviene in mood cinema, televisione oppure stadio. Il superamento della dicotomia vero/falso viene cavalcata trionfalmente da chi si è fatto trovare pronto. E chi si è fatto trovare pronto non sono coloro che spendono – per esempio – la cultura, l’erudizione e il “bello scrivere” come una patente.
Non si tratta di riconoscere la realtà nella finzione. Ma l’esatto contrario. Lo ha spiegato molto bene Ricardo Piglia. Si tratta di riconoscere la finzione nella realtà, riconoscere l’utopia e ancora prima riconoscere una storia quando viene raccontata. Si tratta di tornare alle storie.
Leggere, guardare film, guardare serie televisive, giocare ai videogiochi, ascoltare musica non come arruffato e vagamente epicureo sussulto ma come atto sociale ancor prima che politico. Le narrazioni sono ovunque. Ma non basta riceverle. Bisogna entrarvici, scomporle, muovercisi dentro in solitaria. Rifiutare le semplificazioni da retaggio posizionale tipo “leggo perché” o il citazionismo esibizionista di chi vende le proprie supposte letture (ma come ha letto quei libri?) o il proprio ruolo professionale. No, leggere è uno strumento, un gesto, qualcosa di pratico, che peraltro ha superato l’oggetto libro.
Sarebbe il caso di smetterla, infatti, con la mitizzazione dei libri. Mitizzazione anch’essa di convenienza che non ha prodotto altro che allontanamento, rifiuto e oggi biasimo nei confronti dell’intellettualismo inteso come titolo di studio, gerarchia, ipercorrezione, intenzioni che piacciono appunto a coloro che mitizzano i libri (libri che non leggono o che leggono male).
Nicola Lagioia scrive su Twitter che lo stato dovrebbe valorizzare la filiera libro perché la filiera libro è in grado di produrre ricchezza. Le intenzioni sono sicuramente nobili. Ma, davvero, credo sia la maniera peggiore per parlare di lettura nel XXI secolo. Nonostante Lagioia sia senz’altro un lettore migliore e più completo del sottoscritto,
Intanto la metrica è neoliberale (lo sviluppo economico) mentre la lettura è atemporale, precapitalista e tale dovrebbe rimanere. E poi manca clamorosamente il punto della questione, ovvero: l’indipendenza necessaria tra lo stato (le narrazioni dello stato) e le storie. Lo stato non avrebbe mai inventato un’attività così potenzialmente sovversiva e segreta come la lettura se non l’avesse trovata lì, previa e pronta.
Qualsiasi centro di potere non potrà valorizzare altro che le proprie narrazioni, altroché filiera. Qualunque “sensibilizzazione alla lettura” (come del resto il sistema scolastico, ops) è arbitraria, centralizzata e dunque da evitare. Chiedere allo stato di sostenere la lettura perché “fattore di sviluppo economico” significa mercificarla, allontanare chi dovremmo avvicinare (le masse, i lavoratori, i giovani) e allinearla, cioè significa comportarsi come il mercato, a cui interessa centralizzare e uniformare affidandosi ai medium di massa e alle governance.