IL MIGLIORE AMICO DI BORGES

libri Borges
Borges che piace alle donne.

Questa è la prima parte di un articolo uscito per Finzioni Magazine. Qui intero. Qui la seconda parte. Qui la terza parte.

[…] Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. […].
(Il giovane Holden, Jerome David Salinger)

“Poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”.
Figuriamoci. Applicato ai fattori Jorge Luis Borges, Julio Cortázar oppure Roberto Bolaño il ragionamento avrebbe coinciso con un’accelerazione drastica del concetto e del reato di stalking e con il mio arresto.
Ma loro ne avevano ben donde. Loro si chiamavano Adolfo, Paco e Mario e sono stati per Borges, Cortázar e Bolaño quella persona e quell’amico: il migliore.

Elena Garro, scrittrice e giornalista, è stata la prima moglie di Octavio Paz, peso massimo delle lettere messicane e latinoamericane e premio Nobel nel 1990. Garro e Paz sono stati sposati dal 1937 al 1959 e nel 1939 hanno avuto una figlia, Helena Paz Garro.
Dieci anni dopo la buona nuova, nel 1949, a Parigi, una coppia di scrittori argentini – Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo, marito e moglie – visita i coniugi Paz.
Octavio è un diplomatico e ragionevolmente una persona molto occupata. Silvina è un’aristocratica porteña, e Parigi, in quegli anni, una calamita. Elena Garro e Adolfo Bioy Casares si vedono per la prima volta. Con un pretesto qualsiasi – immaginiamolo – Casares porta Garro a passeggio, nei dintorni dell’albergo George V, dove alloggia. L’errare diventa chiacchiere e le chiacchiere diventano confidenze e le confidenze diventano sorrisi e i sorrisi diventano una carezza e poi un bacio e poi due baci e poi, nello stesso pomeriggio, Elena e Adolfo affittano una camera in una delle innumerevoli pensioni parigine e per un paio d’ore, brutalmente dicendo, scopano.

Adolfo Bioy Casares è stato il migliore amico di Jorge Luis Borges.
L’amicizia tra Borges e Casares nacque, ovviamente, in orbita alla letteratura, stella polare nell’universo borgesiano. Furono collaboratori e ammiratori l’uno del lavoro dell’altro. Hanno firmato un buon numero di opere e traduzioni a quattro o più mani. Erano soci, diciamo, nonostante i quindici anni di differenza.
Sarebbe sbagliato credere che l’anagrafe e la levatura di Borges – Casares è stato un grande scrittore: L’invenzione di Morel, 1940 (e indovinate chi firma la prefazione), è una pietra miliare nella storia della letteratura fantastica novecentesca – viziassero il rapporto in un disequilibrio stile “maestro-allievo”.
Dirà Borges con perfetto accento Borges: “Nel nostro caso il maestro era il più giovane e il più vecchio, io, l’allievo”.
È il 1930 quando Victoria Ocampo, sorella maggiore di Silvina Ocampo, presenta il trentunenne timido e impacciato Borges al diciassettenne lettore e cinefilo compulsivo, di bell’aspetto, ricco e dedito al tennis Casares. È così, in circostanze un tantino bizzarre se immaginiamo un over 30 e un under 18 raccontarsela, che comincia una partnership intellettuale lunga una vita.
Per comprenderlo, questo apparentamento, siamo già nel 1956, quando viene pubblicata una seconda edizione di Finzioni arricchita di tre racconti: La fine, La setta della fenice e Il sud. Borges definiva Il sud “probabilmente il mio miglior racconto”.
La narrazione verte per intero sulla dicotomia uomo di lettere/uomo d’azione ed è inconfondibilmente autobiografico. Juan Dahlmann, il protagonista, è un bibliotecario di Buenos Aires e il nipote di un valoroso soldato – oh, wait –, incorre in un grave incidente venendo colpito alla fronte dallo spigolo di un battente mentre sale le scale di casa per poter leggere Le Mille e una notte – oh, wait –, viene operato d’urgenza perché in pericolo di vita a causa di una setticemia – oh, wait – dunque decide di partire verso il sud dove trascorre la convalescenza in una fattoria. Sul treno stringe tra le mani Le mille e una notte, il libro a origine della propria sofferenza, “ma per la verità Dahlmann lesse poco; la montagna di pietra magnetica e il genio che ha giurato di uccidere il suo benefattore erano, nessuno lo nega, meravigliosi, ma non molto più del mattino e del fatto di esistere. La felicità lo distraeva da Shahrazad e dai suoi miracoli superflui; Dahlmann chiuse il libro e si lasciò semplicemente vivere“.

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“Stai guardando la mia donna, Bioy?” “Ma figuriamoci, Jorge.”

Vivere, dunque. Non limitarsi a speculare attraverso i libri, gli artifici, le sospensioni di incredulità. Non in maniera esclusiva, perlomeno. Lasciarsi semplicemente vivere. E lo scrive Borges, avete letto bene. E sembra Borges che canta una canzone di Vasco Rossi, lo so. E invece è Borges che guarda a Bioy Casares, l’uomo che non sarebbe mai stato, l’uomo che non era capace di essere.

Io che tanti uomini son stato non sono stato mai
l’uomo nel cui abbraccio illanguidiva Matilde Urbach.
(L’Artefice, Jorge Luis Borges)

Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo restarono sposati 53 anni, fino alla morte di Silvina nel 1993. Casares ebbe due figli – Marta e Fabián – da altrettante amanti. Marta fu adottata da Silvina e crebbe sotto il tetto coniugale, Fabián conobbe il padre da adulto. (Pare che la stessa Elena Garro rimase incinta di Casares e che Paz la costrinse ad abortire). Adolfo ebbe decine di amanti, citava Hugo, “Amare è agire” – oltre alla già citata Elena Garro, agì con la scrittrice argentina Beatriz Guido, per esempio – e per quarant’anni, da una a tre volte alla settimana, cenò con Jorge Luis Borges (verdure bollite e una cucchiaiata di dulce de leche per dessert) presso il possedimento della famiglia Ocampo a Recoleta, Buenos Aires, tra citazioni, ricordi e divertissement letterari (e probabilmente una gran fame).
Disse Bioy Casares: “Borges visse per quasi tutta la vita degli amori giovanili sfortunati e molto intensi. È vissuto soffrendo d’amore fino alla morte. E di amori in genere segreti”.
Casares vinse il Cervantes nel 1990, come era toccato a Borges nel 1979.
Ma – evidentemente – nessuna cena a Recoleta con l’amico perché Borges è morto da quattro anni e Silvina è malata di Alzheimer. Casares muore nel 1999, a 84 anni.

[…] Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d’un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale. Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini. […].

Sono le prime righe del monumentale Tlön, Uqbar, Orbis Tertius.
Il velato e affettuoso riscatto dell’amico maldestro attraverso l’ironia del paradosso in bocca al casanova e fedifrago Casares; “gli specchi e la copula sono abominevoli” dice in un libro di Borges l’amico di Borges, il seduttore che Borges avrebbe voluto essere.

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