AMABILI FUGHE: INTERVISTA A RODRIGO HASBÚN

Rodrigo Hasbún

Lo scorso 14 maggio, al salone del libro di Torino, ho intervistato Rodrigo Hasbún, scrittore boliviano. Il suo libro, Andarsene, tradotto da Giulia Zavagna per i tipi di edizioni sur, è una gran bomba. Il pezzo è uscito su Finzioni Magazine, qui sotto lo trovi in versione integrale. 

Rodrigo Hasbún attraversa i padiglioni del salone del libro di Torino con passo cordiale. Non credo esista un passo che possa definirsi “cordiale”, ma in Rodrigo Hasbún tutto pare esserlo. La voce, gli occhi, la barba. Ha 35 anni e nemmeno un profilo social. «Rubano tempo. Distraggono. E poi non amo ostentare». Touché. Rimugino un po’ su questo fatto del tempo come risorsa. Me lo chiarisce, senza volerlo. «Sono stato in Italia per la prima volta 10 anni fa, con mio fratello. Zaino in spalla, a girare. Ma è in questi giorni che me lo sono goduto, il vostro paese. Ho avuto più tempo per scoprire, per osservare, per capire che mi piacciono due città come Milano e Torino».

Rodrigo Hasbún è uno scrittore boliviano che vive a Houston, in Texas. «Parlano tutti spagnolo, non sembra nemmeno di essere negli Stati Uniti». È finito da quelle parti dopo avere peregrinato dalla Bolivia al Cile, dalla Spagna al Canada. Sembra compensare l’imperituro movimento che hanno esatto anni di viaggi trasudando calma.

E ce ne vuole parecchia – di calma – per palleggiarsi la storia di Hans e Monika Ertl, non farsela scivolare tra le dita, e restituire un abbacinante romanzo di centoventi pagine che si muove lungo mezzo secolo. Andarsene, edizioni sur, traduzione di Giulia Zavagna.

Perché proprio la famiglia Ertl?

Non ho scelto questa storia. È arrivata. Mi interessa la famiglia. La considero un perfetto contenitore dei rapporti tra le persone. L’ambiente in cui si relazionano continuamente vicende grandi e vicende piccole. Soprattutto quando ci sono personaggi di un certo peso specifico, come in questo caso.

È un libro familiare, dunque. Ma è anche un libro che contiene tutti i feticci latinoamericani del XX secolo: la migrazione europea, gli indios, i militari, la lotta sociale e quel movimento perpetuo e molto sudamericano di personaggi che non riescono a sentirsi a casa, da nessuna parte.

Solo adesso, fuori dal romanzo, posso dire che vedo anch’io certe connessioni. Mentre scrivevo mi interessava girare attorno al tema portante raccontando le altre storie, gli altri punti di vista, gli altri movimenti.

Movimenti che nei personaggi del tuo libro sono introspettivi e non solo fisici.

La maniera più onesta di narrare il “dentro” è connettersi con il “fuori”. Sentire l’unità.

Le prospettive sono molto diverse anche dal punto di vista linguistico. Utilizzi la prima, la seconda e la terza persona dipendentemente dall’io narrante. Ma chi parla si descrive sempre in relazione agli altri. Perché?

I due personaggi principali del romanzo – Hans e Monika – non intervengono mai in prima persona, sono sempre gli altri a parlare di loro. Il titolo originale del libro [Los afectos, ndr] ha un doppio significato. “Afecto” vuol dire sentimento intenso, ma anche essere al servizio di qualcuno o di qualcosa. Hans e Monika esercitano questa doppia funzione su chi gravita attorno a loro, sui loro cari. Ed è proprio il punto di vista del testimone che mi affascina. Un personaggio come Trixi, per esempio, la sorella minore, una sorta di cronista familiare.

Nel tuo libro accadono continuamente “cose”, si succedono avvenimenti. Come si racconta una storia così complessa in centoventi pagine?

Originariamente ne avevo scritte circa il doppio. Mi sono servite per capire cosa volevo raccontare. Mi piaceva l’idea di mostrare una radiografia emozionale di questa famiglia. Ho tagliato tutto quello che non era necessario. E credo ci sia una grande quantità di “non detto”. Per esempio dal punto di vista storico.

Un editing severo…

Sì, durato un paio d’anni.

Caspita. Non hai urgenza di pubblicare i tuoi lavori?

Non proprio. Cerco di prendere le decisioni corrette. Senza fretta.

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So che sei un musicista e che suoni la chitarra. E si vede. (e si sente). In Andarsene c’è un ritmo ben delineato. È qualcosa su cui lavori?

Sono un musicista frustrato [ride, ndr]. Mi sarebbe piaciuto fare strada nella musica. La amo, amo gli effetti immediati che è in grado di produrre. Ascolti una canzone e ti viene voglia di piangere oppure di ridere oppure di alzarti in piedi e ballare. In un certo senso è la forma d’arte più autentica… Comunque, sì, presto molta attenzione al ritmo. Prendiamo Onetti: leggerlo è come ascoltare un’orchestra jazz.

Onetti, wow! Ecco, cosa significa essere un autore latinoamericano e arrivare dopo la generazione del “boom” e dopo il “monoboom” di Bolaño?

Ho letto con rispetto e con attenzione gli autori del “boom” [mima le virgolette, ndr]. Ma ho ricevuto di più da scrittori restati per un motivo o per l’altro al margine di questo boom. Onetti e Rulfo, per dirne un paio.

Qualcuno ha paragonato Andarsene a Pedro Páramo.

È molto che non rileggo Pedro Páramo, dovrei riprenderlo. I racconti di Rulfo, invece, mi accompagnano sempre. È stato un maestro dell’omissione. Un maestro del silenzio.

A proposito di silenzi, Juan Rulfo è uno di quegli autori di cui posso dire di avere letto l’opera omnia…

Anch’io! [Ce la ridiamo perché Juan Rulfo ha scritto tre o quattro libri in tutta la sua vita, ndr]

Torniamo alla musica. Cosa ascolti mentre scrivi?

Metto sempre lo stesso disco. Le registrazioni di Chet Baker con Bill Evans. In loop. È assurdo, lo so.

Credo l’abbia detto Borges. Una delle qualità più importanti in un libro è l’accessibilità. Anche qui, il tuo romanzo mi sembra rappresentativo. Oltre al ritmo, lavori anche sull’accessibilità?

Non mi piace il termine “accessibile”. Il lettore deve sentirsi vicino ai personaggi, ma rimane comunque un certo livello di difficoltà. Diciamo che provo a mettere il lettore a suo agio e in grado di empatizzare anche a livello sensoriale con il mondo del quale sta leggendo.

Rileggi i tuoi libri?

Solo quando lavoro sul testo. Per una traduzione.

Rileggi i libri degli altri?

Molto. Con il risultato che presto sempre meno attenzione alle novità e sempre di più ai libri del mio passato.

Oltre a Pedro Páramo, hanno paragonato Andarsene anche ai Detective selvaggi di Bolaño. Tuttavia, leggendo le prime righe di Andarsene, una frase mi ha riportato a un’altra opera di  Bolaño, Notturno cileno. La “tempesta di merda” del primo capitolo è un omaggio a Bolaño oppure un caso?

È un ammiccamento. Una citazione. Sei stato l’unico, fino adesso, ad avermelo chiesto. [neanch’io amo ostentare, ndr]. Roberto Bolaño è per me un autore importantissimo. Uno stimolo costante e contagioso. Bolaño mette voglia di leggere, mette voglia di scrivere.

Quali sono i tuoi libri preferiti di Bolaño?

Stella distante, la prima parte dei Detective selvaggi e alcuni racconti magistrali. Come “Ultimi crepuscoli sulla terra”, contenuto in Puttane assassine.

Cosa fai nella vita oltre a scrivere libri sì maiuscoli?

Discuterò la tesi di dottorato a giugno, negli Stati Uniti, dove insegno. Riguarda i diari personali di alcuni autori latinoamericani: il peruviano Julio Ramón Ribeyro, l’argentino Rodolfo Walsh e il poeta cileno Gonzalo Millán.

Chiedo a Rodrigo di fare un paio di foto, beviamo un po’ d’acqua, ci ringraziamo a vicenda. Anche prima di andarsene, Rodrigo Hasbún resta imperturbabile. Quando alzo lo sguardo dai miei appunti è già di schiena. Perfettamente calmo, lontano e in movimento.

Credit immagine: ©Martín Boulocq

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