Questa è la seconda parte di un articolo uscito per Finzioni Magazine. Qui intero. Qui la prima parte. Qui la terza parte.
[…] Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. […].
(Il giovane Holden, Jerome David Salinger)
“Poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”.
Figuriamoci. Applicato ai fattori Jorge Luis Borges, Julio Cortázar oppure Roberto Bolaño il ragionamento avrebbe coinciso con un’accelerazione drastica del concetto e del reato di stalking e con il mio arresto.
Ma loro ne avevano ben donde. Loro si chiamavano Adolfo, Paco e Mario e sono stati per Borges, Cortázar e Bolaño quella persona e quell’amico: il migliore.
Argentina, 1941. Julio Cortázar ha 27 anni, è un insegnante con cattedra alla Escuela Normal Domingo Faustino Sarmiento di Chivilcoy, 150 chilometri dalla capitale, dove è arrivato nel 1939 dopo un’esperienza di un paio d’anni in un istituto di San Carlos de Bolívar, 300 chilometri a nord di Buenos Aires. È un ragazzo glabro, ipocondriaco e riservato, contento di avere dimezzato la distanza dall’incoscienza culturale di quelle città di provincia al centro nevralgico del proprio paese. Lavora per sostenere la famiglia: nonna, madre, sorella e zia. Il padre ha marcato visita molto presto e lui – come si dice – è l’uomo di casa. Quando non lavora legge. E quando non lavora e non legge frigge, concupisce esperienze, movimenti, avventure, specialmente viaggi.
Alla fine del 1940 parla con qualche amico di un progetto di viaggio. L’unico che lo prende sul serio è Francisco Paco Reta, detto “el Monito”, la scimmietta, un ex compagno di classe presso la Escuela Normal de Profesores Mariano Acosta. Un fratello, per Cortázar.
1 è lui all’improvviso: adesso (prima di cominciare a scrivere; la ragione che mi ha spinto a cominciare a scrivere) o ieri, domani, nessuna indicazione previa, lui c’è o non c’è; non posso neppure dire che viene, non esistono né arrivo né partenza; lui è come un puro presente che si manifesta o non si manifesta in questo presente sporco, pieno di echi di passato e di obblighi di futuro
Partono a metà gennaio 1941 tra lo stupore e la preoccupazione del gineceo familiare. Julio – per le donne di casa Cocó – è un ragazzo fragile, cagionevole, che soffre di improvvisi e violenti mal di testa e che proprio adesso punta a nord con quel Paco, estroverso e nottambulo e gravemente malato di insufficienza renale. Una gran bella coppia.
Córdoba, La Rioja, Catamarca, San Miguel de Tucumán, dove vive un fratello di Paco. E poiSalta, Jujuy, Humahuaca, in treno fino a Tilcara, sulle Ande, a 2500 metri. E poi Corrientese poi una nave che solca il Paraná e che arriva a Posadas e poi venti giorni infilati all’interno della Sierra de Misiones a sentirsi un po’ Horacio Quiroga e ad assistere alla “corrección”, un torrente nero di formiche che attraversa le zone tropicali azzerando lo scibile al proprio passaggio, mangiando tutto e passando oltre a tutto, affermando inequivocabilmente un “prima” e un “dopo”.
il suo volto piccolo e pallido, il suo corpo asciutto di giocatore di pelota basca, i suoi occhi d’acqua, i suoi capelli biondi con la brillantina, la riga di lato, il suo vestito grigio, i suoi mocassini neri, quasi sempre una cravatta azzurra ma qualche volte in maniche di camicia o con una vestaglia di spugna bianca (quando mi aspetta nella sua camera di via Rivadavia, e si alza con sforzo perché non mi accorga di quanto è malato, va a sedere sul bordo del letto avvolto nella vestaglia bianca e mi chiede la sigaretta che gli è stata proibita)
Un dopo, appunto: gennaio 1942. Il professor Cortázar è a Buenos Aires per le vacanze di Natale. Paco Reta gli chiede di partire immediatamente per andare con lui a Tucumán dal fratello. Due giorni di macchina e ancora quella sensazione di libertà e di spostamento. Durerà poco. Riceve un telegramma che lo informa della morte del cognato, il marito di sua sorella Ofelia. Prende per la prima volta un aereo e torna a Buenos Aires.
Il 21 marzo dello stesso anno le condizioni di Paco si aggravano improvvisamente, viene ricoverato presso l’ospedale Ramos Mejía. Il quadro clinico è parecchio complesso: insufficienza renale, anemia e complicanze cardiache.
come dirlo, come continuare, fare a pezzi la ragione ripetendo che non è solamente un sogno, che se lo vedo nei sogni come uno qualsiasi degli altri miei morti, lui è un’altra cosa, è lì, dentro e fuori, vivo anche se ciò che vedo di lui, ciò che odo di lui: la malattia lo stringe, lo fissa nell’ultima apparenza sua che è il mio ricordo di lui trentun anni fa; così come ora, così è.
Cortázar dal lunedì al venerdì insegna a Chivilcoy e nei weekend fa rotta sulla capitale e si divide tra la sorella e Paco, il quale viene dimesso dopo tre mesi e – fedele al proprio carattere – fa immediato ritorno alla vita notturna porteña.
A ottobre una nuova telefonata: Paco sta morendo. Cortázar si scapicolla a Buenos Aires e resta accanto all’amico per un’intera settimana, tutte le notti. L’agonia è lenta e dolorosa e Paco cosciente. Il funerale si svolge sabato 31 ottobre presso il Cimitero del Oeste.
anche forse per stare ancora una volta accanto a lui nel momento della morte come in quella notte di ottobre, i quattro amici, la fredda lampada appesa al soffitto, l’ultima iniezione di coramina, il petto nudo e gelato, gli occhi aperti che uno di noi gli chiuse piangendo
Barcellona, 1983. Quartiere gotico. Pomeriggio. Seduta per terra, una giovane ragazza statunitense molto bella canta e suona la chitarra.
È brava, con una voce à la Joan Baez. Attorno a lei un gruppo di giovanotti – tutti più o meno ventenni, tutti più o meno belli – ascolta.
In zona, riparato dall’ombra di un albero, il sessantanovenne Julio Cortázar, scrittore famoso, giramondo e uomo impegnato, si ferma ad ascoltare, pure lui.
Dal crocchio di ventenni si stacca un tizio. In mano ha un pezzo di torta (ebbene sì). Il ragazzo riconosce Cortázar – il quale, peraltro, è perfettamente riconoscibile dal momento che misura centonovantatré centimetri di altezza e indossa una barba che altroché hipster anni dieci – e dice Julio, prendi un pezzo di torta. Cortázar dice ma figurati, si schernisce, fa un gesto come dire ti ringrazio, amico mio, è come se l’avessi preso questo pezzo di torta. Il ragazzo insiste. Cortázar bofonchia. Il ragazzo non molla. Cortázar allora prende un pezzo di torta, l’assaggia, dice grazie per essere venuto da me e avermi dato un pezzo della tua torta, del tuo pasto, della tua merenda. Il ragazzo dice non scherziamo, è talmente poco in confronto a quello che tu hai dato a me. Cortázar dice ti prego, non fare così. Poi Cortázar e il ragazzo si abbracciano.
All’ingrosso, come lo sto sentendo ora, Paco è vivo anche se morirà, e se una cosa so è che in questo non vi è niente di soprannaturale; ho idee precise circa i fantasmi ma Paco non è un fantasma, Paco è un uomo, l’uomo che fu fino a trentun anni fa, il mio compagno di studi, il mio migliore amico.
1* tutte le parti in corsivo sono tratte dal racconto Lì ma dove, come?, Cortázar J., Ottaedro, Einaudi
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