Il backgammon è il gioco più antico del mondo. Questa, perlomeno, è la narrazione che lo accompagna. Per quanto mi riguarda, l’aspetto più interessante del backgammon – aldilà della componente strategica – è l’ambiente che lo circonda.
Due parole sul gioco. Il backgammon è un gioco di strategia controllato dalla fortuna (si gioca con una coppia di dadi). Ma è anche un gioco in cui sono fondamentali scienza e calcolo. Per sommi capi: data una determinata situazione delle pedine sulla tavola, un punteggio e l’esito del tiro della coppia di dadi, c’è una mossa più giusta delle altre e un error rate il cui calcolo procede dalla mossa più giusta. È un’intelligenza artificiale (un software) che rivela quali sono le mosse migliori (la più giusta, la seconda più giusta, la terza, eccetera) e l’error rate dell’intero incontro di entrambi i giocatori. Per essere un buon giocatore di backgammon occorre riuscire a ricavare il massimo con quanto il fato dispone e accettare l’eventualità di perdere giocando meglio dell’avversario (eventualità che si assottiglia sul lungo periodo).
Non è il poker Texas Hold’em (la variante di poker ormai più nota), dove c’è comunque una commistione di bravura e di fortuna. Lo scarto è sostanziale: il backgammon, a differenza del poker, è un gioco dalle informazioni esplicite: la tavola e le pedine sono sotto gli occhi dei giocatori, così come i dadi. Nel backgammon c’è sempre una mossa più giusta delle altre, una mossa che gode del beneficio dell’oggettività. Nel poker qualsiasi narrazione posteriore può essere valida. Non c’è una maniera di giocare pre-flop una coppia alta o un asso e carta alta. Ci sono alcune buone abitudini genericamente accettate ma non esiste il modo giusto. Perché? Perché le informazioni sono sempre parziali: non sai cosa hanno in mano i tuoi avversari, né quali saranno le carte comuni ancora da girare. Se queste ultime sono tutte esplicite, comunque, puoi basarti esclusivamente sulle tue carte private e sulle (cinque) carte comuni. Manca sempre qualcosa.
Il backgammon non beneficia della violenza intellettuale (un po’ elitaria) degli scacchi né dell’accessibilità (e della massificazione) del poker. A backgammon non si fanno i soldi e nemmeno si dimostra la propria intelligenza. Oppure si fanno entrambe le cose. Il backgammon, infatti, è un organismo multicefalo: possiede il volto di una tranquilla domenica casalinga oppure di un pomeriggio estivo in una spiaggia mediorientale ma anche l’esclusivo profilo di una camera di albergo extra lusso e di una sessione money game privata high-stakes, come il concentrato cruccio del torneo ufficiale zeppo di arbitri, classifiche, premi in denaro.
E qui, insomma, torniamo all’ambiente. Curvi sulle tavole ad agitare dadi rivelatori, a massimizzare quanto il fato allestisce, a imprecare, disperarsi oppure esultare, gomito a gomito, troviamo l’avvocato e il gambler, il matematico e il pokerista, il nerd fuoricorso e un tizio di cinquant’anni che campa facendo il fantacalcio, il nonno e lo statistico, una coppia di diciottenni che studia il Go e la benestante con il cane in borsa. Quando la serata finisce qualcuno va a casa in Porsche, qualcuno prende l’autobus. Un sottobosco eterogeneo e straordinario, il cui collante – l’unico possibile – è il backgammon, un gioco dove non vince necessariamente il più bravo ma nemmeno il più fortunato. Un gioco in cui è possibile dimostrare fino a un certo punto la propria bravura e un gioco in cui è possibile contare fino a un certo punto sulla propria fortuna. La botta di culo la devi muovere. Il talento lo devi agevolare. Il backgammon è il linguaggio all’interno del quale aderiscono, (ri)trovandosi, retaggi lontani.
Io credo che la lettura dovrebbe diventare come il backgammon. Un movimento innanzitutto libero, disallineato e aperto dove incontrare estrazioni diverse da preservare nella propria diversità. Il movimento ultralettura non dovrebbe uniformare l’educazione (come fa il mercato) ma, al contrario, magnetizzare l’adesione di profili distanti senza voler rappresentare alcun compromesso o condono morale. Non c’è alcuna presunta superiorità verso la quale tendere sotto l’egida individuale della lettura: anche la lettura è un organismo multicefalo. Ha il volto di John Grisham oppure di Elias Canetti, di Silvina Ocampo oppure di Italo Svevo, di Susanna Tamaro oppure di Marcel Schwob. Ha il volto del filologo oppure del prete. A nessuno interessa cosa leggi. A nessuno interessa se giochi a backgammon con tuo zio la domenica pomeriggio oppure con un milionario russo a 250 euro al punto in una camera dell’Hilton.
Circa duemilacinquecento anni fa in Grecia si scrivevano bellissimi poemi. Ormai sono letti soltanto dalle persone che si specializzano in questo studio, ed è proprio un peccato. Perché questi antichi poemi sono così umani che ancora ci toccano da vicino e possono interessare tutti. Sarebbero anzi molto più toccanti per la gente comune, per coloro che sanno che cos’è lottare e soffrire, piuttosto che per chi ha passato la vita tra le quattro mura di una biblioteca.
Per Simone Weil l’esigenza di liberare la lettura era chiara già negli anni quaranta del XX secolo. E la domanda resta la medesima, anche oggi: come presentare la lettura alla gente comune?
La prima cosa da fare, secondo me, è liberare la lettura, svecchiarla, affrancarla. Portare la lettura fuori dalle accademie, fuori dai festival letterari, fuori dalle promozioni della lettura, fuori dai linguaggi esoterici che parlano a pochi, fuori dai reading, fuori dai salotti, fuori dalle librerie, fuori dalle biblioteche, fuori dalla “norma piccolo-borghese dell’ipercorrezione”.
(che cosa faceva Borges? Parlava con chiunque come se chiunque fosse interessato alla letteratura. Ah, che eccentrico! No, no. Borges – l’autore raffinato, elitario, eccetera – abbatteva, attualizzava, liberava un argomento normalissimo come i libri, come la lettura, dall’incartapecorimento da titolo di studio, arricchimento, prestigio sociale del quale i libri e la lettura sono ammantati).
Non possiamo promuovere la lettura come fosse uno shampoo oppure una derattizzazione. Non possiamo parlare di lettura con il microfono e da un palco, come se la lettura fosse presentabile, una batteria di pentole, propaganda.
Anziché affettare il lessico (non dobbiamo esibire nessuna patente perché non c’è nessuna guardia che ha il potere di domandarlo), cercare di diventare accessibili, ovvero diventare quanto non vogliono sembrare gli scrittori. A chi tocca la responsabilità di trovare questa accessibilità? Tocca agli ultralettori. A loro il compito di trovare un’accessibilità che non proceda dalla semplificazione ma dalla complessità. Non un’accessibilità rapida, non un’apologia della superficialità, l’esatto contrario: un’accessibilità lenta, ragionata e precisa. Un’accessibilità processata che necessita della mediazione della conoscenza, dell’entusiasmo e della competenza per tradursi in lessico. Accessibilità come fase ultima della comunicazione orale o scritta. La più difficile.
Senza avere paura di cercare l’elemento popolare, di guardare e di frequentare da vicino la cultura pop, ovvero il folklore delle masse. Trovare quelle convergenze che aiutano la commistione di presunto alto e di presunto basso. Parlare di lettura nelle scuole, quello sì. Parlare di lettura al bar, agli amici, ai bambini, al benzinaio, al tizio della caldaia, a tutti coloro che paiono guardare la lettura con soggezione perché dall’ambiente lettura sono stati o si sono sentiti esclusi (questo è il vero atto politico, la vera presa di coscienza).
Infine, per liberare la lettura, rifuggirla. Rifuggire la supposta superiorità della lettura in quanto fruizione culturale. Il punto non è diventare una persona migliore attraverso la lettura. Il punto è leggere perché forse piace, leggere perché non è quella supposta coatta che ci hanno infilato nel culo le scuole, leggere perché attraverso la lettura e l’ultralettura possiamo – probabilmente – cominciare a girare le cose e guardarle da tutti i lati, leggere perché saremo in grado di riconoscere una storia quando ci viene raccontata.
La missione segreta degli ultralettori-eroi è liberare la lettura-principessa. Liberarla dal castello in cui l’abbiamo rinchiusa. E poi consegnarla alla gente. Sì, alla gente.
Fondamentalmente ciò che dava molto fastidio allo status della letteratura messicana era il fatto che non stavamo con nessuna mafia, con nessun gruppo di potere. Nella letteratura messicana di quell’epoca, e suppongo anche in quella di oggi, ci sono sempre state clientele e clan, signori della guerra con i loro samurai e noi non stavamo con nessuno: non stavamo con la sinistra, una sinistra stalinista, dogmatica, dirigista; una sinistra spaventosa, dai! Né con la destra raffinata, che di raffinato francamente non aveva niente, una raffinatezza piena di polvere. Né con le avanguardie, a cui l’unica cosa che gli interessava era guadagnare soldi e per di più facevano un’avanguardia rivolta al lontano passato. Ciò che facevamo noi era dare fastidio a tutti.
Roberto Bolaño descriveva così l’infrarealismo, movimento letterario che “dava fastidio a tutti” e che non stava con “nessun gruppo di potere” in Messico dal 1974 al 1977.
Erano dei geni, erano ultralettori.